Fate scorrere rapidamente le immagini come in un film: perchè nascono i Bràul, quando e come?
Claudio Mazzer: L'embrione nasce alla fine del 1989 per il puro piacere di suonare musica folk in senso lato e comunque senza alcuna ambizione. Il gruppo nel frattempo cresce e si trasforma fino a fondarsi come Bràul nel novembre del 1993. L'intento è quello di dare nuova linfa e una nuova veste alla musica popolare friulana e, come tantissimi altri gruppi, nasce su ispirazione o spunto, mutuato da qualche altro gruppo di riferimento. Per noi al principio furono i bretoni Blezi Ruz e i Gwerz che avevano un sound molto originale. A questo progetto parteciparono, oltre al sottoscritto, la cantante Gabriella De Cesco, l'ex chitarrista Giacomo Traina e due altri musicisti non più in formazione. Come spesso accade però, nel tentativo di rinnovamento musicale, si rischio di perdere in personalità – cosa che in parte avvenne nel primo cd – ma a conti fatti possiamo dire che il percorso ebbe la sua utilità.
Da “La corte di Lunas” a “La farina dal diàul”, passando per “Cjaràndis”: cosa unisce i tre dischi, cosa li rende diversi?
Gabriella De Cesco: I “difetti” del CD La corte di Lunas li ha appena indicati Claudio; per l'ultimo La farina dal diàul posso dire che l'ingresso della batteria anche se solo in sala d'incisione ha trasformato di molto il risultato raggiunto nel CD Cjaràndis che, a mio avviso, riesce più degli altri a “descrivere” il nostro gruppo. Allo stesso tempo però ha messo un marchio indelebile sull'evoluzione musicale innovativa del gruppo. Quello che li unisce è rintracciabile in brani-tipo e arrangiamenti-tipo che potrebbero essere Atènz du-cuanc', La rigingè – anche se l'arrangiamento risente un po' dell'età – Marie Madalene, E tu Pieri, La farina dal diàul, E-Resia, Nina nana bambinùte, giusto per citarne solo alcuni che ritengo facciano parte del “file rouge” in oggetto.
Claudio Mazzer: Inoltre c'è un retroscena che va svelato dietro a La farina dal diàul. Due anni dopo Cjaràndis eravamo già al lavoro su un doppio binario; avevamo in mente di uscire con due cd nuovi nell'arco di un anno al massimo. Il primo avrebbe dovuto chiamarsi Acùstic e sarebbe stato composto da una decina di brani eseguiti da strumenti rigorosamente acustici (contrabbasso, pive, chitarre, violino, etc.) ed in modo molto asciutto, quasi scarno. Il secondo si sarebbe chiamato Elètric ed avrebbe visto, inoltre, la presenza di batteria, chitarre elettriche, tastiere, violino elettrico. Lo scopo era quello di far emergere la nostra versatilità nelle composizioni e nelle esecuzioni, anche per toglierci di dosso l'etichetta di “folk cameristico” infelicemente coniato per descrivere il sound del gruppo a quel tempo. Purtroppo, a causa del prolungarsi dei tempi stabiliti e di una certa perdita d'entusiasmo da parte di qualche componente, si decise di “ripiegare” sulla fusione dei due progetti in un unico cd che fosse un pò meno elètric: il risultato naturalmente non è stato dei più soddisfacenti, ma è sicuramente il cd più maturo anche se non sempre espresso al massimo, mentre in Cjaràndis la maturità era in parte sbilanciata da una certa dose di ingenuità che non ha più residui in quest'ultimo lavoro.
Nel panorama friulano, descrivete il ruolo storico-culturale della vostra zona, il pordenonese: terra di mezzo o identità ben precisa?
Davide Ceccato: Il discorso è quanto mai ampio e complesso. Sicuramente il territorio del Pordenonese ha una sua individualità ben precisa; dapprima insediamento dei Paleoveneti provenienti dall'Illiria per divenire in seguito territorio della Roma Imperiale, inframezzato da un'apparizione Celtica che non ebbe il tempo necessario per lasciare eredità alcune. Questa fu la gestazione ma gli sviluppi successivi – non sempre uguali alle sorti del resto del Friuli – lo differenziarono tra il suo stesso nord e centro-sud. In quest'ultima area una più netta influenza veneta o venetica, socialmente, culturalmente e linguisticamente, mentre nella parte nord una più marcata impronta friulana, sia culturalmente che linguisticamente. La nostra zona – San Martino di Campagna – è parte della cosiddetta “area del Cellina-Meduna” nella quale il friulano parlato è un fatto comune e diffuso; questo vale anche per le usanze e le tradizioni. In generale la nostra area ha però più cose in comune con quella Carnica che con quella Udinese e questo per il motivo che fino a 50 anni fa i traffici di merci e persone avvenivano prevalentemente da nord a sud e viceversa, meno frequentemente lungo l'asse est-ovest. I passi montani, con un dislivello massimo di 500mt, erano relativamente più brevi ed agevoli rispetto alla larghezza e alle piene del Tagliamento. Un atteggiamento perverso ha fatto sì che questo fiume sia diventato, suo malgrado, confine e barriera tra il Friuli Occidentale (“Destra Tagliamento” è una bestialità storica) e il Friuli Orientale, quasi ad indicare una malcelata “supremazia” culturale e linguistica di quest'ultimo rispetto al primo. Un atteggiamento che ha purtroppo messo solide radici – prive di fondamento – anche nei settori colti della Regione. In buona sostanza, linguisticamente, il Friuli appare come la Bretagna nella quale il bretone non è uno ed unico ma si differenzia da zona a zona, da paese a paese senza la presenza di un'unica area linguistica “eletta”; solo che lì è normale mentre da noi no. E pensare che diversi vocaboli friulani della nostra area sono più antichi, più aderenti alla lingua delle origini rispetto ai corrispondenti situati oltre Tagliamento, ma tant'è.
Ultimamente certe inquietudini interne al gruppo hanno portato a un drastico cambio di formazione. Da Un punto di vista musicale cos'è rimasto, cos'è cambiato?
Lucia Clonfero: Per alcuni dei componenti era arrivato il momento di prendere una decisione e di compiere una scelta tra proseguire insieme l'avventura artistica o cedere le armi alla stanchezza e ai continui impegni che il lavoro in un gruppo comporta; alla fine, a malincuore, hanno optato per la seconda strada. In questo nuovo scenario noi, come “reduci”, abbiamo colto l'occasione per dare un cambiamento, nello specifico, anche alla sonorità complessiva del gruppo. Da subito abbiamo deciso di lavorare solamente con quanto rimasto dell'organico precedente, assieme a Nicoletta alla fisarmonica; un nuovo arrivo e al tempo stesso la conferma dello strumento nel gruppo. Il successivo ingresso di Davide alle chitarre, bouzouki e flauti ha poi completato il quadro. Con questo cambio della guardia si è così costituito un nucleo ristretto di quattro, cinque musicisti con un sound molto più asciutto, più essenziale ed al contempo più immediato, diretto, nel quale trovano ampi spazi anche improvvisazioni strumentali, nuove espressioni vocali, l'uso del violino elettrico a fianco di quello acustico, un uso diversificato delle percussioni ed un sostegno nella gamma dei bassi incentrato sulla fisarmonica a bassi sciolti e sulle possibilità offerte dal violino elettrico e da alcune percussioni. Del passato rimane quell'ossatura musicale, quell'“imprinting” che distingue e individua da sempre il nostro percorso artistico certificabile anche in quei brani che Gabriella ha ricordato in precedenza.
Facendo un passo indietro, una caratteristica piuttosto evidente del vostro sound erano gli arrangiamenti rieccheggianti atmosfere bretoni. Da cosa nasceva questa particolare tendenza, poco diffusa in Italia, che negli ultimi lavori si è resa meno evidente?
Claudio Mazzer: Il periodo della nostra comparsa sulla scena musicale era pervaso di celticità, concetto diametricalmente opposto all'attuale celtismo di partito o di movimento politico con il quale molti si sono cuciti addosso un vestito/simbolo da usare all'occorrenza come propria identità (termine quanto mai infelice ed oscurantista) in opposizione ad un “altro”, ad un “opposto” di simbologia stereotipata. Una gran parte dei gruppi italiani di allora o suonava oppure si ispirava al folk irlandese: i Modena City Ramblers ne hanno fatto tesoro ad esempio. Noi trovavamo più interessante la melanconia e il vigore delle armonie armoricane e del padre fondatore del movimento panceltico Alan Stivell; movimento sorto non in opposizione a, bensì alla pari di, per uguale dignità di, quindi non contro ma a favore di qualche cosa, che è un concetto estremamente differente da quello che oggi va per la maggiore. Questa nostra comunque parziale presa di campo filo bretoneggiante, ha incuriosito alcuni addetti del settore facendogli storcere un po' il naso, mentre per gruppi italiani che sfornavano concerti e dischi delle proprie terre ma intrisi d'Irlanda non c'era nulla di cui meravigliarsi. Non si trattava di una vera e propria tendenza la nostra, ma di gusto musicale non omologato al celtismo irlandese imperante. Poi siamo diventati più grandicelli ed abbiamo gradualmente abbandonato questi modelli d'ispirazione musicale anche se in generale continuiamo a preferire la musica bretone a quella scoto-irlandese; i Whisky Trail sono una magnifica e quanto mai grandiosa eccezione, e lo stesso vale anche per Massimo Giuntini, Morrigans Wake, Birkin Tree.
Se si eccettua la Sedòn Salvàdie e, in parte, voi, i gruppi friulani suonano poco nel resto d'Italia. Colpa della geografia o c'è dell'altro, secondo voi?
Nicoletta Cattaruzza: Principalmente forse c'è già una mentalità sbagliata in partenza che in Friuli, in generale, è abbastanza diffusa: una sorta di mancanza di autostima che fa rinunciare prima ancora di provare; di “osare”, poi, non se ne parla neanche. L'esatto contrario dei vicini Veneti che, qualsiasi cosa facciano, partono determinati a mille. Ma tralasciando questo aspetto pur non secondario, bisogna distribuire le cause di questo fenomeno almeno tra altri due fattori; il primo riguarda proprio la geografia. Fin quando ci saranno riviste di turismo nazionali che titolano “Da Trieste a Marano: week end in Veneto (!!)” siamo messi male. Il fatto che l'area di Nordest sia chiamata TriVeneto o Le Venezie, oltre al nome regionale Friuli Venezia Giulia, non aiuta di certo a fare chiarezza; più che altro il Friuli appare a molti come un “distretto laterale” del Veneto, ad altri come una Regione d'Italia non meglio identificabile. Ma il fattore determinante, esentando dal discorso quei gruppi a carattere prettamente filologico che costituiscono una forma espressiva a sé e per certi versi distinta, è che a mio avviso ancora nessuno è probabilmente riuscito a riproporre in modo maturo e convincente, una elaborazione musicale tale da guadagnarsi un posto di rilievo in campo nazionale e internazionale. Il primo esempio che mi viene in mente è Mari Boine e la musica della cultura e del popolo Sami da lei riproposta: non so se ho reso l'idea. E' stupefacente la maturità e la consapevolezza con le quali ha maneggiato la delicata materia della propria musica tradizionale portandola a livelli d'eccezione. Noi musicisti friulani dobbiamo avere più determinazione, più coscienza ed una più ampia visione d'insieme della materia in questione. Forse bisognerà pazientare ancora un po'.
C'è un nuovo disco in vista? Se si, cosa avrà di particolare?
Gabriella De Cesco: In effetti, come da leggenda, qualcosa “bolle” nella pentola del Bràul. Stiamo lavorando ad un progetto del tutto nuovo, in parte inusuale per noi, che coinvolge fattivamente anche alcuni scrittori italiani e friulani oltre ad uno statunitense ed alcune “giovani promesse” della Regione, senza distinzione in fatto di maggiore o minor notorietà. Per i tempi non abbiamo ancora in previsione una data certa ma invitiamo quanti siano interessati a visitare il nostro nuovo sito di imminente apertura oppure di scriverci all'indirizzo. Di particolare, oltre al contenuto che ancora preferiamo non svelare del tutto, avrà proprio le composizioni musicali – quasi tutte originali – risultato di una unione tra tradizioni sonore e contemporaneità.
Intervista a cura di Roberto G.Sacchi